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Gradoli - Madre e figlia scomparse - Lettere al direttore - Scrive il criminologo Lilli
"I media fanno la loro parte"
Viterbo - 9 settembre 2009 - ore 2,30

Riceviamo e pubblichiamo - Gentilissimo direttore,

le invio, con preghiera di pubblicarla, la mia riflessione in merito ai fatti di Gradoli, nello specifico al presunto “processo” ad opera della trasmissione televisiva Chi l’ha visto?.

Il mio intervento non vuol essere un tentativo di difesa della suddetta trasmissione televisiva: primo perché non mi appartiene questa fattispecie di “attività”; secondo perché non credo ne abbiano bisogno, né la redazione, né i singoli giornalisti.

Detto ciò, tuttavia, vorrei ricordare ai suoi lettori che ogni qualvolta si verificano delitti o, come nel caso di specie, sparizioni quantomeno sospette di persone, i media - e nello specifico trasmissioni televisive come Chi l’ha visto? – è normale che si interessino del fenomeno, anche se spesso propendono più a caldeggiare la ricostruzione dell’evento a favore degli organi di investigazione pubblica, vale a dire della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, rispetto a quelli delle parti indagate.

Non vi è novità in tutto questo, del resto è più facile, meno “oneroso” e meno rischioso reperire e divulgare informazioni provenienti da fonti autorevoli come quelle sopra dette.

Di esempi ne abbiamo avuti tanti in Italia: ricordate i fratellini Pappalardi di Gravina di Puglia? Il padre sbattuto in prima pagina sia dei giornali che dei “teleschermi” come mostro, poi risultato estraneo ai fatti.

Oppure: ricordate il cosiddetto delitto di Arce? La ragazza sparita il primo giugno 2001, rinvenuta cadavere due giorni dopo? Bene, fu arrestato e detenuto in carcere per 18 mesi un carrozziere della zona, mi occupai al fianco del criminologo Carmelo Lavorino della sua difesa tecnica, dimostrammo che le indagini condotte da quelli che all’epoca venivano indicati come i number one dell’investigazione criminale, l’UACV (Unità Analisi Crimini Violenti) della Polizia di Stato, avevano preso un abbaglio.

Lo dimostrammo non attraverso i media, i quali quasi tutti ci avevano visti fino ad allora come difensori di un assassino, ma dinanzi alla Corte di Assise - del Tribunale di Cassino prima, e quella di Assise di Appello di Roma poi - che il nostro assistito non aveva ucciso alcuno, tanto è vero che fu assolto in primo grado, assoluzione confermata in appello, e ancora una volta confermata dalla prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione (ma non è l’unico caso).

Anche la trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, ha caldeggiato per mesi la teoria investigativa della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, rivelatasi poi fallace, priva di fondamento, in quanto non suffragata da nulla, dico nulla! Perciò, i media fanno la loro parte, anche se spesso troppo di “parte”, ma ribadisco: non credo che questo possa destare sgomento più di tanto, almeno per chi ha una certa esperienza professionale su casi particolari, se non addirittura singolari.

La polizia giudiziaria e il pubblico ministero svolgono il proprio compito, quello di investigare e giungere ad una determinata teoria del crimine, per poi proiettarla in ambito processuale e farla divenire prova.

È ovvio che anch’essi, quali comuni esseri umani possono sbagliare, e sbagliano, come ho già detto, ma è altrettanto vero che le difese - oggi - hanno in mano uno strumento normativo innovativo rispetto al passato, quello delle cosiddette investigazioni difensive, di cui alla Legge 397/2000, vale dire difendersi “provando”, èrgo investigando.

Strumento utile e utilizzato da gran parte degli avvocati, verosimilmente anche da tutti coloro i quali oggi si trovano ad affrontare tale “scomoda” difesa: quella relativa agli indagati di Gradoli.

Ovvio è, in via generale, e non nel caso specifico, che per avvalersi di tale strumento è opportuno che l’assistito abbia ben chiara l’utilità e la portata dello stesso, nonché della necessaria presenza nel gruppo di lavoro di consulenti che abbiano maturata e comprovata esperienza in tal senso, specie in casi omicidiari.

Poi, da parte del difensore giurista (l’avvocato per intenderci) e del difensore tecnico (investigatori e consulenti), è essenziale credere all’utilità del lavoro di gruppo e, soprattutto, si badi bene, avere la convinzione che il proprio assistito sia innocente, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Cordiali saluti.

Marco Lilli
Investigatore penalista e analista della scena del crimine

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